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I "non-bisogni" dei giapponesi

Se è vero che due culture non potrebbero, e non dovrebbero, esser messe a paragone o confronto, è anche vero che è parte della natura umana stessa tentare di misurare qualsiasi cosa utilizzando il metro che con maggior semplicità gli permette di comprendere.
Nel caso di una cultura straniera, volenti o nolenti, ci ritroviamo a paragonare la nostra cultura italiana, i nostri modi di fare e di dire, di vivere e vedere i vari aspetti della vita, con tutto ciò che è Giappone... il tentativo è di capire, di comprendere, di approfondire.
E come in tutti i paragoni, molto spesso, il risultato è quello di percepire un'assenza, da una o dall'altra parte.
A guardar con "occhi sbagliati" là dove vi sia un'assenza nella nostra cultura di origine, ci si ritrova a vedere come un eccesso, un qualcosa di troppo, a volte inutile o superfluo.
Nel caso di un'assenza nella cultura esaminata, invece, si tende a vedere un vuoto, una mancanza.
L'occhio di chi vuol capire, da entrambe le situazioni, vede ciò che è: semplice diversità.

La casa tradizionale giapponese, sia nell'immaginario collettivo straniero che, quasi interamente, anche nel reale e concreto storico, da un'immagine di sé come qualcosa di molto spartano.
Ambienti quasi del tutto vuoti, il tatami (pavimento di stuoie) immacolato, le mura spoglie e, nel complesso, un'ambiente che profuma di spazio.
Poi, tuttavia, appare quasi sempre quell'immagine: una sorta di alcova, nella parete, un paio di scaffali, un vaso con una semplice composizione floreale, per lo più qualcosa di snello, longilineo, e, appesa alla parete, quella che sembra essere una pergamena con uno o un paio di misteriosi kanji.

Questa è la casa tradizionale che, bene o male, si è consolidata durante il Periodo Muromachi (1336-1573), quel periodo storico giapponese in cui il Clan Ashikaga, per primo, assunse il ruolo di Shogun, trasformando la storia del Paese del Sol Levante in maniera drastica ed unica... trasformazione che sarebbe permasa fino quasi allo scoppio delle Guerre Mondiali.
Porte e finestre di sottile carta di riso, protette da un secondo baluardo ligneo da incastrare o levare, a seconda delle eventualità; le pareti candide, di quel colore importante per il suo concetto religioso di purezza quanto per la luminosità, così indispensabile nell'architettura domestica; il tatami, con le sue ferree regole per mantenerlo pulito; l'assenza di mobilia, se non l'indispensabile che, quando perde questa sua indispensabilità, viene riposto altrove, in armadi incassati in quelle pareti di legno e vari strati di carta di riso... e, infine, quella alcova di cui pocanzi.
La tokonoma.

 

L'unico reale abbellimento nell'abitazione tradizionale, poiché il Kamidana (altarino Shintoista domestico) e il Butsudan (altarino Buddhista per la commemorazione dei cari defunti) non sono certo, nell'ottica giapponese, degli abbellimenti bensì delle necessità spirituali, il tokonoma rappresenta quello che, per noi italiani, potrebbe essere il comodino pieno di bomboniere, la parete con i quadri o oggetti d'arte collezionati sulla mensola del caminetto.
Il tokonoma è l'angolo dell'arte, della bellezza, che rincuora.

Non manca mai nella cerimonia del thè, questa alcova così delicatamente decorata.
E così mi trovavo con mia moglie a parteciparne ad una, nella periferia di Kyoto.
Quando la nostra cerimoniante ci venne ad accogliere, ci introdusse nella stanza, semplice e spartana, come una stanza delle case tradizionali del Periodo Muromachi, e ci fece accomodare.
Io ero seduto dando le spalle al tokonoma per cui tutto ciò che potevo vedere di fornte a me erano pareti spoglie e la cerimoniante.

 

Quando la cerimonia finì, mentre percorrevamo la strada verso casa, mi ritrovai ad esser pensieroso.
Al mio ingresso avevo notato il tokonoma e mi sarebbe piaciuto potermi soffermare un po' di più nell'osservarlo, nel godermi la composizione... mi sarebbe piaciuto ricever assegnato il posto a sedere che invece fu della cerimoniante, ovvero quello che aveva il piccolo angolo della bellezza e dell'arte proprio di fronte.
Invece non lo avevo praticamente potuto vedere se non per i brevi istanti all'ingresso e all'uscita.
Mia moglie si accorse del mio esser pensieroso e mi interrogò a riguardo, così le spiegai la mia perplessità.

 

Devo dire che succede praticamente... sempre.
Le mie affermazioni, così occidentali, spiazzano sempre il suo modo di pensare e vedere le cose... la mia mente, occidentale e italiana, nata e cresciuta imbevuta di vari input che mi spingono a determinate reazioni, pensieri, emozioni e conclusioni molto spesso viaggia in una direzione totalmente diversa rispetto alla sua mente, nata e cresciuta imbevuta da input del tutto diversi.
La parte piacevole è il rispettarsi e accettarsi, spiegando l'un l'altra la propria cultura, senza mai voler aggiudicare il premio di "cosa giusta" a nessuna delle due.

 

"Tu eri l'ospite", mi spiegò, "quindi la persona più importante di tutta la cerimonia."
"E allora perché son stato piazzato proprio nell'unico posto dal quale mi era impossibile vedere il tokonoma?", chiesi io.
"Il tokonoma è una cornice, non la vera opera d'arte... il vero soggetto da ammirare eri tu. 

Per questo sei stato fatto accomodare con le spalle al tokonoma, di modo che questo ti abbellisse e rendesse ancora più piacevole il già grande piacere della tua visita."

 

Siamo oggettivi adesso:

ci sarebbe mai venuto in mente un pensiero del genere?
Avremmo mai potuto pensare che l'ospite è così rispettato e lo si vuol ringraziare così tanto da volerne serbare per sempre un ricordo unico e per questo viene piazzato come per una foto ricordo, col più bel panorama domestico alle spalle?

Io avrei fatto l'opposto, gli avrei donato la vista dell'opera d'arte... ma in Giappone l'opera d'arte è l'ospite, per cui metterlo a guardare un qualcosa di inferiore ad egli stesso risulterebbe quasi offensivo.
Per questo mi è stato posto alle spalle.

E la cerimoniante ha potuto godere della mia presenza (che, ci tengo a specificare, non è che fosse speciale in quando fossi specificatamente io ma solo in quanto ospite, al pari di qualsiasi altro...).

 

Questo pensiero l'ho voluto approfondire, mescolare e rimescolare con tanti altri pensieri ed esperienze.
Il bisogno e il non-bisogno nelle varie culture.

E, col senno di poi, non avrebbe, in realtà, dovuto stupirmi.

 

Quanti non-bisogni, comuni nella cultura giapponese, abbiamo già imparato ad osservare?

Non è certo il primo né il più notevole.

Le amicizie che durano fino alla morte, sebbene per svariati motivi possano passare anni senza vedersi né sentirsi, se non per l'annuale nengajou (la cartolina degli auguri per l'anno nuovo, una pratica decisamente rigorosa se si voglion conservare le amicizie e non perderle con la fine dell'anno): non sono forse esplicite manifestazioni di un sentimento e del suo non-bisogno di reale incontro?
Le parole non dette in una conversazione, per mantenere l'armonia dell'incontro: non sono forse anche queste una manifestazione del non-bisogno di imporre una propria idea, specie quando non è importante nel contesto, all'interno di una conversazione ed, allo stesso tempo, è una manifestazione del bisogno di pace e armonia?

Il più grande di tutti gli esempi non è forse quel pensiero per il cui "se è vero amore non ha bisogno che tu lo debba dire a voce: il cielo resta il cielo, anche se tu non lo nomini... basta guardarlo e il cielo è sempre lì, a fare il cielo... così è l'amore: l'amore è lì, ed è percepibile se c'è, anche senza doverlo dire"?

 

E anche oggi, ho imparato qualcosa di nuovo.
Qualcosa che non fa di certo di me un giapponese, né vi sarà mai nulla che ci riuscirà (e, d'altronde, non ne sento la necessità), ma qualcosa che mi ha permesso di capire un po' meglio, ancora un po' di più, i processi mentali del popolo del Paese del Sol Levante.

Non divento giapponese, mi avvicino soltanto rispettosamente ad altre persone come me.

E quante volte ci siam detti "era meglio se stava zitto" o, "parole, parole... soltanto parole" e altri pensieri del genere?

Confondere la loquacità, la ricerca di un contatto quasi immediato, l'apertura con "una via giusta" è un grave errore, poiché, anche nella più loquace ed aperta delle culture, ogni singolo uomo è un universo a sé stante.
"A volte il silenzio vale più di mille parole", è un detto che dovremmo ricordare (assieme a "meglio tacere e sembrar stupidi che parlare e confermarlo")