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Lanterne sul Fiume

Stavo guardando delle foto, tra le miriadi che ho, per sceglierne alcune da postare un po' sui social.

Ho creato vari album, sul mio cellulare, dividendo le foto a seconda delle città in cui le scattai: Nara, Kurashiki, Nagoya... 

Automaticamente (o, forse, semplicemente perché non so fare io), il cellulare mi presenta le foto in ordine temporale: prima le foto più recente, mano a mano quelle più vecchie.
Inizio a guardare le prime... piano piano passo oltre, non scelgo questa perché si vede gente che fuma sullo sfondo e non mi va, neanche questa, anche se mi piaceva, perché c'è quella grossa insegna di affittasi kimono con un'immagine di una specie di accappatoio spacciato per kimono... ne scarto sempre di più, ne scelgo qualcuna...
noto che più vado indietro e più ne scelgo...

così mi fermo a pensare...

Capita, a volte, di pensare che il Giappone non cambi mai, che sia un luogo eterno di immutabile, romantico splendore passato... e ovviamente non è così, se non giusto nelle foto orchestrate ad hoc o nelle immagini di chi, probabilmente, spesso, scambiando una turista coreana che fa costume player da Geisha per una reale Donna dell'Arte, crede di rivedere i Samurai per le stradine di Kyoto, sotto una ragnatela di cavi elettrici e all'ombra di grosse antenne paraboliche.

Ma le cose cambiano, invece...

 

Ieri

La prima volta che visitai Nara, la città che oggi tutti chiamano "la città dei cervi", nonostante abbia ospitato da sempre sia i Cervi che altri importanti siti storici, tra cui il Grande Buddha del Tempio Buddhista Todaiji, e che prima veniva comunemente, infatti, chiamata come "la città del Kasuga Taisha" o "la città del Grande Buddha" o, ancora, "la città del Todaiji"... la prima volta che la visitai feci una lunga passeggiata: partii dalla Stazione dei Treni della linea Kintetsu e visitai un laghetto artificiale, da qui mi introdussi nel Parco, camminai a lungo tra gli alberi, sempre più lontano dalle strade e sempre più in profondità in quel senso di sacro che si prova quando si visita un sito di pellegrinaggio, di quale religione che sia.

Mi fermai a mangiare una ciotola di ochazuke, riso in brodo di the, sotto consiglio di un signore locale, e quindi ripresi la mia strada, questa volta mirando ai luoghi che mi ero ripromesso di visitare.

Visitai alcuni negozietti locali, alcuni specializzati nella vendita di carta e, soprattutto, pennelli per lo shodo, la calligrafia giapponese.

Sulla strada di ritorno, quando oramai si era fatto buio, mi lasciai confondere dalle luci di uno shotengai, una via commerciale coperta, e dei suoi negozi moderni: konbini, ristoranti, negozi di souvenir...

Incontrai tanta gente: molti giapponesi, tanti asiatici, con i turisti cinesi in grande numero, e qualche occidentale.

Tutti erano entusiasti, o, almeno, così mi era sembrato nel guardare i loro volti, mentre uscivano da questi negozietti o ristorantini tradizionali e l'atmosfera si era fatta meno magica ma ugualmente divertente a sera, nei comuni negozi di souvenir moderni...

 

E mia moglie, un giorno, mi disse: "questo weekend andiamo a Kurashiki?"
Io non conoscevo il posto, per cui chiesi di cosa si trattasse e lei mi raccontò di un paesello, molto romantico e dallo stile giapponese (nel senso di molto tradizionale).
Un posto tranquillo, con poche persone e luoghi interessanti, tra cui la passeggiata sul fiume, che a sera si illumina di mille lanterne di carta, il silenzio e quel senso di amorevole torpore che si ha quando si cammina in pace, da soli, nei luoghi che hanno visto la storia ma questa non li ha stravolti.

Un paesello di strette viuzze, case tradizionali in legno, incensi e rintocchi di lontane campane Buddhiste.
Comodo da raggiungere, con la sua stazione dei treni, tutto sommato non distante da Kyoto, e con un'interessante produzione e lavorazione di jeans: pantaloni, borse e tanto altro ancora.

Lo aveva visitato tanti anni fa, giusto una sola volta, e le era piaciuto molto e ora, vivendo a Kyoto, ci voleva tornare e voleva portarmi, convinta che mi sarei subito innamorato dell'atmosfera di Kurashiki.

 

Dalla stazione di Nagoya partono, ogni giorno, un numero impressionante di treni, tra cui tantissimi Shinansen, i super veloci.
Dallo spiazzale antistante, intanto, altrettanti sono i pullman che arrivano e partono.

Pullman che vanno a Kyoto e Osaka, altri che vanno a Tokyo, altri ancora verso Gifu e Takayama.

In genere non ci saliva molta gente: era più un mezzo economico, per chi non aveva realmente fretta o che preferiva, o doveva, in ogni caso, risparmiare.
Anche nelle prime ore della notte, si vedevano arrivare questi pullman, i più economici e, spesso, quelli dal tragitto più impegnativo, in quanto a tempo.

Universitari che volevano andarsi a divertire da amici a Tokyo, ragazze che volevano fare un veloce salto (leggasi: shopping) a Kyoto, qualche signore che aveva pianificato un weekend di bevute e sana follia a Osaka, per staccare dalla routine assassina della vita d'ufficio.

Quelli che andavano "per le montagne", poi, erano un'apparizione rara e trovavi ad aspettarli, alla fermata, per lo più anziani: chi tornava a casa dopo aver visitato i figli, chi andava in un viaggetto economico e leggero, chi un pellegrinaggio o trekking...

 

E questo era ieri...

 

Oggi

La piazza antistante la Stazione dei Treni di Nagoya è gremita di gente: ci sono tanti giapponesi, visto che Nagoya rimane, inspiegabilmente, un luogo spesso ignorato dai turisti, se non giusto come punto di collegamento.
Poi vedo una coppia di occidentali, un gruppetto di asiatici... li seguo con lo sguardo e vedo una zona dove sono tantissimi.
Si tratta del punto di imbarco dei pullman, quei pullman che si dirigono oggi, come anni fa, verso le montagne: Takayama, Gifu e Shirakawago.

Soprattutto quest'ultima meta: la fila è impressionante: guardandola mi chiedo quanto sarà grande il pullman.

Mi sbaglio.

Sono quattro.

Quattro pullman che arrivano e partono subito, dopo essersi saturati di turisti.
E ancora, a terra, in fila, ne rimangono infiniti.

Alle fermate per Tokyo, Osaka e Kyoto ci sono le solite poche persone, invece per Takayama e Shirakawago c'è un numero davvero sorprendente, che sembra non calare mai, di persone che partono.
E ancora pullman che arrivano, caricano gente, e ripartono.

Penso alla scena nel punto di arrivo: una zona tutto sommato piccola, ridotta dal punto di vista di una visita turistica, e tutte quelle persone che, da qui a un paio di ore, dall'ampio spazio che è il piazzale della Stazione, si ritroveranno tra i sentierini che serpeggiano tra le poche casette in legno del paesello.

Immagino questa sorta di processione: è come vedere un corteo, una manifestazione di sciopero, ma invece di sfilare per le vie di una città, attraversa le sale di un museo.

Ma Nagoya è bella anche per questo e Shirakawago... beh, Shirakawago mi è stato utile come metro di paragone per altri luoghi simili (ce ne sono davvero tantissimi di paesini identici) ma sconosciuti che visito quando mi riesce.

 

Arrivammo presto a Kurashiki, e già c'era tanta gente in giro.

Alla stazione era tutto un fotografare: fotografare il trenino, fotografare la stazione, fotografare la foto della mascotte appesa alle pareti, fotografarsi davanti ai binari, fotografare il capostazione...

Un vociare in varie lingue ci accompagna mentre attraversiamo la zona più moderna, quella di uffici e negozi, fino a raggiungere il fiume, con i suoi ponti gremiti di persone che sollevano i loro stick per selfie per fotografarsi.
La camminata è piacevole, è rilassante poter guardare verso l'alto e vedere il cielo a due passi dalle proprie teste, quest'illusione creata dai bassi tetti in legno, con le scure tegole tipiche delle case giapponesi tradizionali.

Le viuzze tra queste case sono quasi tutte bloccate perché prima una coppia, poi una famiglia, poi una singola persona... tutte vogliono farsi la foto in questo scorcio di passato.

A pranzo ci accontentiamo di un family restaurant, per rimanere un po' intimi.

Una visita all'indaffaratissimo negozio di jeans locale, che vende davvero di tutto... e io che vengo spintonato a destra e manca dalle ondate di clienti.
Mia moglie riesce a comprare una borsa.

Io riesco a rimanere vivo.

Prendiamo strade laterali, il numero di turisti immediatamente si assottiglia, evapora: rimangono le loro voci come lontano background musicale ma, dopo due traverse, non se ne incontra che qualcuno, sperduto, che segue il proprio cellulare come fosse la bacchetta da rabdomante nel deserto.

Peccato, perché questo gli impedisce la vista di giardini bellissimi, subito oltre le basse palizzate, con al centro deliziose abitazioni che tanto mi ricordano i cartoni animati (perché così li chiamavamo all'epoca) della mia infanzia.

Lentamente il cielo si tinge e torniamo sul fiume.
Le lampade sono accese e lottano per mantenere un'atmosfera romantica di un sogno del passato contro i continui flash che le illuminano, cancellando i loro riflessi su un fiume affollato di barchette gremite di turisti, tutti col cappello da raccoglitore di riso (per qualche oscuro motivo), che vanno avanti e indietro, mentre i barcaioli, per attirare altri clienti, si cimentano in prove acrobatiche: i ponti sono particolarmente bassi, per cui dicono ai clienti di appiattirsi sul fondo della barchetta mentre loro, da novelli spiderman, zompano sul ponte, lo scavalcano, e si rilasciano delicatamente cadere, beccando la coincidenza col loro mezzo.

E  giù di applausi, dopo aver finito di registrare la stories per Instagram.

Sarà affollatissimo oggi quell'hashtag.

Aveva ragione mia moglie: adoro Kurashiki, il suo fiume, le sue lanterne.

Sono fortunato perché ho molta fantasia.

 

Non porto quasi mai la mascherina.

Non ho nulla contro chi la indossa, è solo che credo che non mi stia bene e alla fine non mi riesce di respirare.

Certo, quando gira l'influenza o se sono io un po' acciaccato la metto: magari non mi protegge davvero dagli altri, come tanti urlatori mi ripetono spesso, e magari non protegge nemmeno gli altri da me... ma, in fin dei conti, cosa mi costa?

Però quando vado a Nara la metto sempre.

I cervi.

Puzzano.

Dalla stazione ho perso le speranze di poter prendere un bus senza venir sopraffatto dallo stress per cui preferisco fare quattro passi e osservare un po' di vita comune in quella parte di città a cui nessuno sembra interessato.

Saluto il robottino Pepper, la pizzeria che fa la vera pizza napoletana a 500 yen (dice), un negozio che vende peluches di maiali... o cose che dovrebbero forse sembrar maiali.

Arrivo verso i negozietti di materiale per lo shodo e... ci spendo qualcosa, ogni volta.

Passo dal laghetto e sorrido nel guardare le tartarughe che allungano il collo per puntare il loro stesso viso verso il sole (immagine che, per altro, nell'immaginario giapponese è riconducibile all'erezione maschile e per questo spesso viene usata in maniera allusiva... e i viagra naturali locali son sempre estratti di qualcosa di tartaruga).

La scalinata, i primi Templi Buddhisti, l'odore dell'incenso... e finisce tutto troppo in fretta.

Cervi.

Turisti che danno da mangiare ai cervi.

Turisti che gridano quanto siano carini i cervi.

Altri cervi.

Altri turisti che cercano di abbracciare i cervi per farsi una foto.

Cervi che sembrano invocare dentro di loro la morte più violenta possibile pur di non farsi fotografare ma che, tutto sommato, pur di poter tentare di arraffare un passaporto da sgranocchiare (sono autolesionisticamente dipendenti dalla carta, soprattutto se ben stampata e piena di inchiostro... ne son proprio attratti e la mangiano con violenza) alla fine lascian pure correre.

Prima di ritrovare un po' di pace hai da attraversare un vero e proprio calvario, circondato dalla "città vecchia" (così dice la mappa) che altro non è che una serie di prefabbricati in un vago stile Edo in cui si vendono calamite, apribottiglie, cappellini con corna di cervo carinizzate, e ancora calamite, un accappatoio in plastica con scritto accanto "vero kimono", ancora cappellini con la scritta "samurai"... ti ritrovi ad un bivio, o, meglio, tu e altri milioni di visitatori vi trovate ad un bivio: da un lato una marea di cervi che ti separano da una delle meraviglie dell'architettura religiosa Buddhista (il Todaiji), dall'altro una marea di cervi che ti separa da un sentiero di lampade di pietra che portano ad un importantissimo sito Shintoista (il Santuario di Kasuka Taisha).

Il ristorante che faceva quel buonissimo ocazuke ora si è tramutato in un ristorante di sushi e le botteghine tradizionali ora vendono gachapon con cervi, calamite e cappellini.

Sopravvivono i negozi di articoli tradizionali per lo shodo.

Raggiungo il Kasuga Taisha, dispiaciuto perché avrei anche voluto vedere il Grande Buddha... e grande lo è davvero, visto che parliamo di 14m circa di magnificenza, ma davvero non me la sentivo di attraversare per due volte (una all'andata e, se la Provvidenza mi avesse assistito, una anche per il ritorno) uno slalom della morte tra puzza, cervi, sterco di cervi (anche se, bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare: appena un cervo anche solo pensa di sentire un vago accenno di... già appare un anziano signore o un'anziana signora armata di scopetta e secchiello per pulire), gente che da fastidio ai cervi... e se pensiamo che i cervi, già di per sé, sono più di 1.000, con un rapporto cervo/turista che sta 1/7...

saluto con una preghiera in un Tempio ignorato (nonostante ci debbano tutti passare accanto... ma se non te lo han segnalato su internet, perché mai dovresti interessartene? Non potresti nemmeno taggarlo...)  il Grande Buddha (il Dainichi Nyorai, per esser precisi, anche se, affettuosamente, tutti lo si chiama semplicemente Daibutsu, ovvero, anche in giapponese, "Grande Buddha") e rientro verso la stazione dopo essermi riposato sotto il magnifico tetto di glicine nella zona con le panchine al Kasuga Taisha, mentre guardo la gente che fotografa le miko, le assistenti sacerdotesse, intente nella vendita degli omamori, i talismani, incorniciate dal cartello "non fotografare" scritto in 472 lingue, tra cui si ritrova sia l'antico mesopotamico e il venusiano.

Potrei comprare una calamita, prima di tornare a casa, ma opto per lasciar perdere.

Anche questa volta.

Probabilmente sarà l'età, che ti spinge sempre a lamentarti di qualcosa, o forse questo nostro tipicamente italiano "si stava meglio quando si stava peggio", tanto insito nel nostro DNA, forse l'aver assorbito tante parole non dette a voce ma ben nitide negli sguardi attorno a me... non lo so, ma, e perdonami la citazione ma viene da uno dei miei film preferiti di tutti i tempi (e che consiglio assolutamente), "il tempo... i ricordi, non li fa diventare belli?"