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I miei nonni giapponesi

Se parliamo di dati di fatto, va da sé che la propria esperienza personale può anche esser citata, come conferma personale, o smentita, di un qualcosa che abbia, comunque e soprattutto, una base ufficiale: dati, fatti concreti e comprovabili.

Il fatto che io abbia stretto una forte e duratura, sincera amicizia con un ragazzo di Nara non può esser citato per affermazioni come “gli abitanti di Nara sono amichevoli”, come anche il fatto che, tra l’altro per esclusiva mia “colpa” (un insieme di fattori: poco tempo libero, lontananza, ecc ecc che mi impediscono, o, meglio, che fanno sì che io preferisca altro, di frequentare luoghi di aggregazione sociale come pub e affini come facevo prima), non può esser mostrato come “prova” per affermare “gli abitanti di Kyoto sono poco amichevoli”.

Un dato di fatto, ad esempio, è che lo stile di vita, le abitudini e ciò che avviene comunemente nelle varie situazioni che si creano nelle varie città, e, a volte, perfino differenze tra quartieri, se queste son particolarmente estese, possono determinare attitudini differenti... ma siamo sempre, tutti esseri umani e, in quanto tali, siamo molto più simili su tantissimi fattori di quanto, a volte, sembra tendenza volere credere.

E quindi parliamo di amicizie... e questa volta voglio parlarti di una mia amicizia un bel po’ particolare.

Sono una persona sedentaria ed abitudinaria, uno di quelli per cui “squadra che vince non si cambia” e, per questo, quando visito una città varie volte, se in una di queste volte ho trovato un hotel in cui mi son trovato, sotto vari aspetti e per vari fattori, bene... tendo a tornare sempre lì, potendo.

Un esempio è Tokyo.

A Tokyo ho alloggiato, oramai si parla di tanti anni fa, in un hotel a due passi da Shinjuku e mi ci son trovato bene.

Ci son tornato più e più volte e mi son sempre trovato bene... e credo che continuerò a tornarci.

Una delle cose che più mi piacciono di questo hotel è che le stanze sono praticamente mini-appartamenti, dotati di salottino e cucina, con tutto ci che serve per cucinare (comodo se si rientra troppo stanchi per aver voglia di uscire per cena o se, semplicemente, è troppo tardi per trovare qualcosa di realmente buono nelle vicinanze) e che la fermata della metropolitana più vicina è abbastanza poco trafficata, per cui posso evitare di venir strapazzato malamente.

E poi ci sono i miei nonnini.


La storia che mi hanno raccontato è così interessante e, tutto sommato, bella (nella sua “conclusione” almeno) per cui voglio fartela conoscere.

Tanto tempo fa, parliamo di settantenni che hanno iniziato a lavorare giovanissimi, c’era un ragazzo che aveva trovato lavoro in un piccolo ristorante di Ramen a Tokyo.

All’inizio lavava i piatti e li porgeva ai cuochi, poi, sia per l’esperienza che la fiducia guadagnata, iniziò a cucinare sempre di più.

E intanto il piccolo ristorante era diventato un grande ristorante e poi una piccola ma ben conosciuta catena.

Ben conosciuta soprattutto per la qualità della sua cucina.

E il giovane ragazzo, intanto, diventava un giovane uomo, impegnato, subissato dal lavoro, poiché diventava via via più importante all’interno della gerarchia culinaria interna di questa catena e di questo specifico ristorante.


In Giappone, la gente molto spesso finisce per mangiar fuori e questo è ancor più vero a Tokyo, dove i ritmi e le distanze spesso non ti consentono proprio neppure l’accarezzare l’idea di potertene tornare a casa tua in santa pace.

Una cosa che accomuna italiani e giapponesi (ma, io penso, in realtà, un po’ tutto il mondo... perché mi risulta difficile pensare che ci sia gente che volontariamente sceglie di mangiar male cose che non gli piacciono) è il desiderio di mangiar cose buone, cose che ci piacciono.

In Giappone non si teme neppure una fila di ore di attesa pur di mangiare in un dato ristorante...

cosa che, logicamente, cozzerebbe col concetto di mangiare in fretta, che è ciò che spinge a non tornare a casa... o almeno così sembrerebbe.

In realtà non sono stato preciso ma non è facile da descrivere: non si tratta di mero tempo fisico, ma spesso è proprio un mix tra metterci troppo tempo, tempo “fastidioso” perché magari speso per attività che provocano fastidio, come stare stipati in una metro... insomma se magari tornare a casa significa un viaggio di un’oretta, magari preferisci aspettarne due per strada piuttosto.

Capita anche a me, peer cui alla fine ho capito la sensazione, anche se è difficile da metter per iscritto: quando mi trovo, ad esempio, dalle parti del Tokyodome farei qualsiasi cosa, compreso camminare per un’ora, pur di non prendere la metropolitana lì perché dall’ingresso della stazione alla piattaforma da cui saltar sul vagone ci vogliono 17 minuti (contati!) di scale... 

ma torniamo a noi.


Il giovane uomo è diventato un uomo e si è sposato ma praticamente passa la vita a cucinare in un ristorante sempre super affollato, dove deve preparare centinaia di volte lo stesso piatto alla velocità della luce per svariate ore al giorno.

E, questo piatto, lo deve sempre cucinare al massimo della sua arte.

La cosa dura per giorni che si susseguono nel diventare un mese che sembra un’eternità... e poi questa eternità senza fine si moltiplica per diventare un anno, e da qui vari anni.

Fino al crollo.

Un crollo psicologico, stress accumulato che gli fanno esplodere il cervello.

E non può più lavorare.


Ma la coppia non è ancora abbastanza anziana da potersi godere la pensione... e allo stesso tempo quest uomo non può certo tornare a lavorare a quei ritmi, per cui, su idea e supporto della moglie, la coppia si apre un localino.

Una stanzetta da una ventina di posti, in un sottoscala (letteralmente l’ingresso è coronato da una scala esterna), ammobiliato con semplicità.

E qui tornata cucinare ramen.

Assieme.


Oggi non ha tantissimi clienti, non è sulle guide Michelin (non è proprio sule guide, in realtà), ma chi ci ha mangiato, di passaggio o su consiglio apposito, ci torna.

Eccome se ci torna!

Non son poche le volte che, passandoci davanti, guardo attraverso l’ingresso solo per scoprire che, anche se l’idea di un pranzo/cena lì mi era gradita, purtroppo non è possibile perché pieno.

Ma se prima mi affacciavo, magari chiedevo anche... ora tento di buttarci un occhio senza farmi notare, da lontano... come un ladro.

Perché se mi dovessero vedere, i due anziani del ristorante, mollerebbero tutto e tutti per venirmi a salutare e sarebbero due ore tra abbracci, saluti alla signora e inchini per chiedere perdono perché è tutto pieno e non mi possono accogliere.


Avrai sentito tante volte oramai il mantra che recita “in Giappone sono falsi: i commessi ti sorridono perché son costretti ma dentro ti odiano, e tanto anche”.

Può essere.

Non avendo io il dono della telepatia, come altri evidentemente hanno, non so cosa pensano, so solo cosa mi dicono e mostrano.

Ma anche senza dono della telepatia, alcune cose riesco comunque a capirle.

Quando, dopo una cena in questo ristorante, prima di andare, durante le chiacchiere, faccio sapere ai nonnini che per un po’ non ci rivedremo perché, causa impregni, non tornerò a Tokyo per mondo quanto tempo, e allora loro mi chiedono di scattarci una foto assieme, con i loro cellulari di vecchissimo modello.

E quando consigli il locale ad un amico e questo ci va e porta i tuoi saluti e questi due nonnini, tutti felici, torna fuori la foto che portano con loro salvata nel cellulare.

O quando, di mattina, stai camminando per fatti tuoi e senti qualcuno che ti chiama, ti volti e vedi la nonnina che, oberata da pesanti buste della spesa, invece di continuare per la sua strada (visto che non l’avevo ovviamente vista, dato che era dietro di me), cambia strada, allungando non poco, per raggiungermi (si, come al solito avevo la musica nelle orecchie, per cui se non mi avesse raggiunto e non mi si fosse piazzata davanti non avrei mai avuto neppure il vago sentore della sua presenza) solo per salutarmi e chiedermi come sto.

E quando chiudono ufficialmente perché si è fatta una certa ora, ma ti fanno comunque entrare per cenare assieme, oppure, dopo averti dovuto negare la possibilità di mangiare da loro, perché oberati dai clienti, organizzano comunque per andar a mangiare assieme il giorno dopo, che è il loro giorno libero...


Forse in Giappone l’amicizia “non è come da noi” e, forse, a Tokyo sono tutti freddi... e tanti altri discorsi.

Forse è vero.

Forse io sono solo fortunato.

Però appena tornerò a Tokyo, un buon ramen non me lo leva nessuno.

La verità è che è da un po’ che non vado a Tokyo e le ultime volte, comunque, è stato per lavoro e non ho potuto alloggiare nel mio hotel preferito a Shinjuku.

Non mi è andata male, anzi, E il ryokan (antica locanda tradizionale giapponese) dove ho alloggiato mi ha riservato interessantissime sorprese, anche riguardo la mia materia di ricerca (gli Yōkai)... ma sarei andato volentieri a mangiare un buon ramen dai miei nonnini di Shinjuku.

Perché oggi, così, di botto, ne scrivo, quindi, a riguardo?

Qualche giorno fa è stato il mio compleanno e mi han mandato un sms di auguri.

Magari non è amicizia, ma a me piace pensare che non sia poi così impossibile.