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Lavoro e famiglia, uomo e donna in Giappone

Oggi stavo guardando la TV, sul canale NHK (un canale nazionale, come la rai o la mediaset), e giunse il momento delle previsioni meteorologiche. Durante la spiegazione di un grafico la voce dell'annunciatrice si fece rotta... l'arguto staff la inquadrò: stava piangendo, ma continuò, tra le lacrime inarrestabili, fino alla fine della sua mansione.

Allora pensai che c'era un aspetto del lavoro in Giappone di cui non avevo parlato...

 

Parlando dell'uguaglianza sessuale in Italia si può dire che, in campo lavorativo, si siano compiuti passi da gigante. In Giappone, a mio avviso, c'è una concezione di diseguaglianza che risulta meno sessista dell'uguaglianza italiana.

Come? C'è diseguaglianza ma dici che è meno sessista?

E' complesso da spiegare, ma leggendone la situazione che vado ad illustrare capirete cosa intendo.

Parlando di grosse aziende, il concetto di impiegato visto come risorsa prima che essere umano è una visione comune in Asia come in Europa. Quali sono però le differenze?

 

 

Parliamo di un impiegato di sesso maschile.

Appena assunto, in una cultura lavorativa che tiene in gran conto l'esperienza maturata (specialmente nella stessa azienda), l'impiegato si andrà a trovare in un sistema di "nonnismo" ufficializzato.

Le sue prime mansioni saranno umili: supporterà i colleghi anziani (先輩, senpai) facendo lungo lavoro di routine privo di vera responsabilità. Sarà sua premura arrivare per primo, controllare che le varie carte siano al loro posto, controllerà che sian state firmate da chi di dovere, smisterà le commissioni e inizierà le risposte della varia corrispondenza.

Quando i senpai avran iniziato a lavorare verrà chiamato infinite volte, dovrà letteralmente accorrere e sbrigare ogni richiesta in centesimi di secondo, ricevendo ogni sorta di noioso incomodo.

Mentre il senpai curerà un affare, il novizio (後輩, kouhai) preparerà il contratto, cercherà le pratiche e invierà le dovute email (preconfezionate).

Quando l'affare è fatto, il senpai firmerà ciò che ha da firmare e, finito il turno, lascerà l'ufficio.

Il kouhai invece continuerà in estenuanti straordinari, a volte fino a notte tarda, per compilare moduli relativi, trascrivere informazioni e altri ingrati, noiosi, lunghi compiti del genere.

Se sopravvive per, in media, tre anni finirà di essere un kouhai e otterrà il "rispetto" da comune impiegato.

Tuttavia verrà trasferito in un'altra sede... se l'azienda è locale la cosa non sarà così pesante, ma se, come molte, l'azienda ha sedi sparse in tutto il paese finirà in qualche altra città.

Nella nuova sede non sarà più un kouhai, ma i primi tempi ovviamente sarà comunque come sotto "addestramento", mentre familiarizza con l'ufficio e i colleghi.

Ogni tre anni verrà spedito ovunque, man mano salendo di grado, fino al pensionamento.

Se l'azienda ha filiali all'estero potrebbe esser spedito in una di queste.

E se quest uomo ha moglie e/o figli?

Non è un problema dell'azienda.

Non son rari i casi di padri che vivono per cinque giorni in una città, da soli, mentre la moglie con i figli resta nella città iniziale. Se i figli son almeno nell'età delle scuole medie, la famiglia potrebbe seguire il padre. Ma in ogni caso spostare tutto ogni tre anni circa è dura, per cui la situazione del "padre solitario" altrove è tutt'altro che rara.

Ma perché questi trasferimenti?

Esperienza e sicurezza.

Diverse sedi potrebbero avere funzioni differenti, reparti speciali, clientele diverse... l'impiegato vivendo realtà differenti svilupperà sia esperienza che adattabilità, divenendo di fatto più efficiente.

Inoltre, lavorando solo per un periodo limitato in una data sede, non entrerà in possesso di "segreti" della sede: questo renderà arduo (anche se continua a non esser impossibile, anzi è una pratica comune e sempre attuale) la partecipazione dell'impiegato nello spionaggio industriale (per altre aziende, per la yakuza e anche per la polizia).

Certo, l'impiegato può rifiutare il trasferimento: è un suo diritto.

Ma, in Giappone, ogni diniego (anche il più legale o giusto) è quasi un'offesa all'azienda.

Lo straordinario è inevitabile, il trasferimento imposto...

Nel caso di rifiuto, l'impiegato si vedrà precluso l'aumento di grado.

 

Intanto la donna?

Una donna appena assunta è praticamente poco più di una cameriera: porterà il caffè ai colleghi maschi, sistemerà i documenti in ordine, ordinerà le scrivanie, smisterà le telefonate interne, porterà la corrispondenza... ovviamente anche lei lavorerà alle pratiche, ma solo quelle più semplici e sbrigative.

Al finire del turno lavorativo lascerà l'ufficio, non son previsti straordinari (almeno, non lunghi) per una donna: l'azienda si premura che essa possa rincasare prima che faccia buio, così da evitare la responsabilità di una donna sola per le strade.

Quando smetterà di essere considerata una kouhai, passerà da cameriera a segretaria: affiancherà i colleghi maschi esperti nelle mansioni portando il suo aiuto come in Italia farebbe la segretaria di un avvocato o notaio.

Difficilmente sarà comunque mandata in prima linea con i clienti esterni all'azienda: questa virile battaglia è prerogativa maschile.

Passati tre anni smetterà di portar caffè e organizzerà una bella cena per i colleghi che verran trasferiti.

Lei, invece, non verrà trasferita.

L'azienda può spedire in lungo e in largo l'impiegato maschio (compreso lo spaventoso estero) ma non si azzarderebbe mai di far patire questa tortura ad una donna: a meno che essa stessa non richieda un trasferimento (in genere o per seguire il marito o per tornare vicino ai genitori divenuti anziani), non è previsto che l'azienda mandi in giro un'indifesa donna.

Man mano che la donna guadagna anni di servizio sale anch'essa di grado: se in azienda vi è un discreto numero di impiegate potrebbe venir creata una sezione prettamente femminile, con gradi interni, per cui potrebbe, con impegno e pazienza, divenir fino a capo sezione.

La presenza di un "capo" femminile con subordinati maschi è un evento più unico che raro: non è pensiero comune che una donna non possa/debba "comandare" un uomo, ma per via del percorso lavorativo, l'uomo maturerà maggiore competenza. 

 

Ci sono donne che diventano leader o, quantomeno, seguono un'ascesa paritaria a quella maschile?

Si. Ma a differenza dell'Italia, in Giappone il concetto di scelta e conseguenza ha ancora un valore: si festeggia la festa della donna e quindi quella dell'uomo.

Ma come fa, quindi, una donna a superare questo sessismo in campo lavorativo?

Semplicemente lo sceglie: sceglie di non essere una donna.

Questa scelta le darà la possibilità di salir di rango fino a presidente, con gli stessi tempi maschili e alle stesse richieste (rinomata un'azienda di interni che recentemente ha avuto un cambio di vertice votato dal direttivo, che ha appoggiato una donna a scapito di un uomo), non porterà caffè, non farà fotocopie...

lavorerà fino a tarda notte, sbrigherà pratiche lunghe e si spezzerà la schiena portando pacchi di scartoffie, verrà spedita ogni tre anni in giro per il paese (o il mondo!) e così via, proprio come il collega maschio.

Ah, ci si aspetta che, visto che ha dichiarato di non aver bisogno di un trattamento diverso da quello maschile, non richieda l'aspettativa per gravidanza: farà una il più possibile lunga pausa per malattia o userà i giorni di ferie.

 

E' giusto? E' sbagliato?

E' paritario?

Per i giapponesi è un sistema perfetto, in genere le donne optano per il "trattamento leggero" ma sapere di poter scegliere le rassicura.

 

Cosa penso io?

Non che sia importante, ma credo che le battaglie per la parità dei sessi siano giuste e credo nel significato letterale della parola "parità".