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E fallo un altro inchino

Era l'estate del 2009 e mi trovavo a Tokyo, per la prima volta e al mio primo giorno nel Paese del Sol Levante.

Mattina presto, appena uscito dal ryokan (albergo in stile tradizionale giapponese) in cui soggiornavo, mi ero diretto verso un vicino negiozietto per comprare qualcosa per far colazione. Al ritorno, avendolo già adocchiato pochi minuti prima, mi fermo un attimo in un altro negozio che sembra vendere prodotti artigianali tradizionali: non resisto alla tentazione e ci entro.

Non ho comprato molto, in fondo ero al primo giorno e in più non capivo molto di ciò che vedevo (e men che meno il reale valore monetario degli articoli) ma ricordo che per tutto il tempo un commesso, sempre sorridente, mi seguì, parlandomi.

A quel tempo non capivo una parola di giapponese e il gentile commesso non sembrava in grado (o non era intenzionato) di parlare in inglese, ma, e me lo posso confermare oggi con l'esperienza quotidiana, l'impressione generale fu di squisita gentilezza, cordialità ed educazione.

Fu il mio primo impatto con la cultura giapponese del rispetto e rimase (e rimane tutt'ora) fisso nella mia mente come, con celerità ma con altrettanta attenzione, i miei acquisti furono messi nella busta e come mi fosse stata portata dal commesso stesso fino all'uscio del negozio, uscio sul quale, fino a che non voltai l'angolo per immettermi nella stradina del mio ryokan, il commesso rimase, inchinato per tutto il tempo, in segno di ringraziamento e saluto.

Certo, questo è solo un mero esempio ed è legato, per giunta, allo speciale rapporto tra commerciante/commesso e cliente che esiste in Giappone, ma non fu certo l'ultimo. Molti altri, quotidianamente, mi circondano e, spesso, anche piu disinteressati, poichè non legati al lato commerciale.

Infine, oggi, mentre tornavo a casa, una giovane madre con un bebè nel marsupio e un altro bambino per la mano, nonostante la fatica fisica della situazione (e chissà da quanto era in giro, cosa aveva fatto tutto il giorno...), sul marciapiede in cui si trovava, in attesa che il semaforo diventasse verde, si spostò e fece delicatamente spostare il bambino che teneva per mano, per rendere più agevole il passaggio di una coppia di anziani signori.

L'ho vista e ignorata, questa scena.

Solo in seguito, seduto comodamente sul treno che mi riporta a casa, decidendo di scrivere ancora qualcosa sul Giappone, mi è venuto in mente il perchè io abbia potuto ignorare un gesto simile: l'ho ignorato perchè è normale, qui. 

Piccoli (ma non per questo meno importanti) gesti di gentilezza verso il prossimo, rispetto, attenzione verso chi ci circonda... sono tutti elementi che sono diventati parte della mia vita e del mondo in cui mi trovo. 

Sono gesti dovuti e voluti, infine, divenuti naturali.

Per questo ho potuto ignorarli, perchè sono la mia quotidianità di oggi.

 

 

Spesso quando si pensa al "tipico giapponese" finisce per venire in mente l'immagine del 会社員 (kaishain, ovvero l'impiegato d'azienda): nel suo completo scuro, con un taglio di capelli tale da sembrare più il fidanzato di Barbie (se scrivevo solamente Ken nessuno si sarebbe ricordato di chi parlo!) ma di colore scuro, la faccia impassibile, probabilmente perso in un fiume di altri elementi perfettamente identici.

Mentre questa immagine prende vita nella nostra mente, mentre inizia a muoversi, le sue azioni non sono certe quelle che useremmo per dare il buon esempio ai nostri figli: in treno ad occupare i posti riservati agli anziani (ho visto anche a volte individui che fingevano di dormire per non dover lasciare il posto), in stazione a camminare svelti, spesso persi a guardare il proprio cellulare, che urtano senza posa né ritegno e nemmeno chiedono un briciolo di scusa (spesso neppure si voltano a guardare), ubriachi per strada il venerdì notte a disturbare le ragazze che passano... 

No, non voglio negare questa realtà, perchè sarebbe un torto gravissimo sia a te che stai leggendo (a proposito, visto che siamo in tema di gentilezze: grazie per il tempo che mi dedichi!) sia verso la società che mi ospita: un torto verso chi è diverso da questo stereotipo, purtroppo non troppo stereotipo ma, ahimè, presente; un torto verso chi si prodiga ogni giorno in attenzioni ed educazione verso il prossimo; un torto verso i principi insegnati dalle famiglie "di una volta"; un torto anche verso questi individui e verso la Società tutta... perchè è bene che sappiano che, sebbene per quieto vivere tutti noi li ignoriamo e facciamo finta di non vedere, purtroppo li notiamo: li notano gli altri giapponesi (e se ne vergognano), li notano gli stranieri... il Giappone è un Paese meraviglioso, sarebbe un torto non fargli notare questa pecca, perchè solo mettendola in luce può essere curata, facendo si che il Sol Levante sia ancora più luminoso.

 

Ma questo non voleva essere un articolo di denuncia sociale, per cui torno immediatamente sui binari.

Ma cancelliamo questa immagine, nata dal volere scandalistico di alcuni mass media che non sanno trovare notizie vere di cui parlare, e osserviamo assieme ciò che ci circonda: le esperienze di chi ha visitato il Giappone, per lungo o breve termine, o di chi, come me, ho la fortuna di viverci (e ne gioisce).

 

Nelle case giapponesi, come negli appartamenti, grandi o piccoli che siano, regna un silenzio che sa di sacro. Si, perchè il rispetto è un valore ritenuto tale, in Giappone.

Mi capita, a volte, tornando a casa a tarda notte dopo una serata a bere fuori con gli amici e mia moglie, di essere particolarmente allegro e, senza rendermene conto, retaggio del mio essere italiano (retaggio di cui, per inciso, sono fiero), di parlare a voce alta, oppure voler fischiettare: esternare la mia gioia.

Vengo ripreso da mia moglie.

Si, ci troviamo in una via qualsiasi, ma mia moglie, che è giapponese, nonostante l'alcool in corpo, non può frenarsi dall'avere un pensiero di rispetto per ciò che la circonda: il mio fischiettare, a tarda notte, potrebbe disturbare qualcuno che ora sta dormendo e che domani, probabilmente, avrà da alzarsi presto per lavorare per mantenere la sua famiglia.

Esco da un conbini e mi avvio per la mia strada, ma vengo raggiunto da una signora in bicicletta che mi rivolge la parola: non sono miei, ma la signora in questione ha visto dei guanti per terra, vicino a dove mi ero trovato io, e pensando che mi fossero caduti mi ha inseguito, lasciando lì la sua spesa, per ridarmeli.

Attraverso un parco e una coppia di anziani incrocia la mia strada, si inchinano leggermente e mi salutano, sorridendo. Mi chiedono, in uno stentato inglese, se ho bisogno di qualcosa, credendomi un turista spaesato (ed in effetti, se lo fossi stato, in quello sperduto parco ne avrei ben avuto bisogno, di aiuto!) e si scusano varie volte prima di salutarmi e augurarmi buona giornata.

Sul treno, lo staff, entra nel vagone e fa un inchino a tutti noi passeggeri, attraversa con calma lo spazio tra i vari sedili, di modo da poter portare il suo supporto a chi ne avesse eventualmente bisogno, poi, giunto alla porta che conduce al vagone seguente, si volta e ancora una volta ci saluta tutti con un inchino.

Alla fermata della metropolitana, il funzionario che controlla i tornelli, ringrazia tutti, uno per uno, man mano che passano.

 

Sono solo alcune delle miriadi di scene di cui sono testimone, quotidianamente. Oramai sono tutte scene che sono entrate a far parte della mia giornata, per cui ci faccio sempre meno attenzione, ma il mio è un grave errore: sono tutti atti che meritano attenzione, che meritano di esser resi noti, presi ad esempio e a modello.

È il rispetto di un popolo. Un popolo che crede nel rispetto, che crede nello starsi vicini, aiutarsi... un popolo che crede nell'inchino e che non ne lesina l'uso.

 

Una volta, parlando con un'amica giapponese, ci ritrovammo a discutere di quanto fosse, per me, complicato comprendere il reale significato delle conversazioni che spesso ho con le persone che incontro. 

Mi spiego meglio: in giappone, se per esempio inviti qualcuno al cinema ma questo qualcuno non ha alcuna intenzione di andarci al cinema (per qualsiasi motivo, può essere che non vuole uscire con te o che non gli piace il cinema o quel film... il concetto finale è che comunque al cinema non ci vuol andare), non ti dirà mai quel che pensa realmente. La risposta che ti dirà, molto probabilmente, sarà un "si, vorrei andarci, però in questo periodo ho degli impegni..."

Il problema è che il giapponese medio davvero spesso ha tantissimi impegni. Per cui come fare a capire se davvero vuol andare al cinema, e quindi magari aspettare prima di andarci per conto proprio e attendere che abbia del tempo libero, oppure è meglio andarci senza attendere ciò che mai avverrà?

Anche oggi, io, a questa domanda non ho mai trovato risposta (e, nel dubbio, al cinema ci vado anche da solo quando posso e mi va).

Ma torniamo alla mia conversazione con l'amica giapponese.

Ovviamente fu d'accordo con me.

E qui entriamo nel punto della situazione: il rispetto.

Il livello di rispetto nella società giapponese impone che non si creino attriti: è dovere di ciascun interlocutore far si che la conversazione non crei imbarazzo o difficoltà negli altri, compresi eventuali ascoltatori casuali nei dintorni.

Io potrei anche rispondere, alla domanda di esempio riguardante l'andare al cinema, che il film scelto non mi piace, ma questo, per un giapponese, suonerebbe rude: la persona che ha proposto il film in questione potrebbe sentirsi in imbarazzo per aver scelto un film non piacevole.

Ho apprezzato moltissimo che la mia amica, per insegnarmi questo aspetto della società giapponese, si sia forzata nell'essere "irrispettosa", per come viene inteso in Giappone, per potermi illustrare lo stato d'animo dell'interlocutore giapponese: dire quel che si pensa, per quanto possa esser apprezzata la sincerità, potrebbe esser visto come un agire egoista, scontroso.

 

Si, me ne rendo conto, per noi italiani la sincerità è una dote apprezzata (anche se, a volte, vien usata la parola "sincerità" semplicemente per coprire pura e semplice maleducazione, una porta varcabile per poter lasciar sconfinare la propria voglia di insultare o criticare senza ritegno l'operato o la persona altrui nascondendosi sotto una falsa aura di "genuinità") ma in Giappone prima di tutto viene il rispetto e se devo dire una "white lie" (dall'inglese, una piccola bugia a fin di bene) per mantenere serena l'atmosfera e far si che il mio interlocutore si possa sentire a suo agio, allora è decisamente una pratica maggiormente apprezzata.

Per questo, spesso, se chiederai ad un giapponese cosa ne pensa degli italiani, sarà quasi impossibile sentirgli pronunciare parole di critica nella sua risposta: saremo divertenti, interessanti, allegri, una buona cultura culinaria e tanti altri pregi, ma difficilmente ti sentirai dire che, però, a volte in Giappone i turisti italiani non rispettano le regole sociali, son rumorosi (si, in metropolitana, ad esempio, vige la regola del silenzio... no, non parlo del classico "non schiamazzare" che esiste anche in Italia, ma parlo proprio del silenzio, per rispetto... perchè magari qualcuno vuol riposare, qualcuno sta studiando... ) o sporcano senza rimorso le linde strade delle città giapponesi.

Parlando del marito (americano) di una collega di lavoro, lo nominano come  格好良い (kakkou ii, strutturalmente sarebbe "cool", figo), oppure ne lodano l'arguzia nel campo lavorativo, ma non diranno mai che però tradisce la moglie. Perfino per il delinquente, il giapponese medio si ritrova a dire solo parole buone: qualsiasi cosa purchè la conversazione rimanga su temi leggeri e non crei nessun "sentimento negativo" di alcun genere negli interlocutori.

Forse è anche per questo se in Giappone non vanno di moda i talk show dove la gente litiga...

 

In giapponese, la parola "rispetto" è 儆意 (keii).

È una virtù e viene insegnata in famiglia, soprattutto dalla madre, utilizzando il padre come figura autoritaria a cui portare estremo rispetto. Anche nelle scuole è un elemento fondamentale dell'insegnamento, partendo dal rispetto degli studenti per gli insegnanti (che vengono accolti e salutati in aula attraverso un inchino di gruppo), ma anche attraverso la pratica della pulizia della scuola stessa (compito affidato agli studenti, a turno, per sviluppare in loro, fin da subito, il sentimento di rispetto per l'ambiente e delle proprietà, oltre che concetti come resposanbilità e il bellissimo pensiero, comune in Giappone, "se non sporco poi non dovrò pulire", che porta al risultato tanto acclamato della pulizia di cui il Giappone è assai noto) e ancora, coltivato, anno dopo anno, nei diversi registi linguistici (come in italiano abbiamo il "dare del tu" o "del voi" o, ancora, "del lei"), cosa che si porta avanti quindi, insita nel DNA dei giapponesi, nel mondo del lavoro (ma, purtroppo, come abbiam visto all'inizio dell'articolo, spesso si perde quando si è sopraffatti dai terribili ritmi della vita lavorativa aziendale giapponese), fino ai lenti giorni dell'anziana età.

E rispetto è la base della cultura dell'inchino e l'inchino è forma di rispetto.

E io, con rispetto, ringrazio questa splendida cultura che mi ha dato una grande lezione.

 

Non è facile parlare di rispetto senza scadere in moralizzazioni da pulpito di chi predica bene e razzola male, senza sembrare banale nel trattare tale argomento e senza finir per esser visto per uno che vuol dare lezioni d'educazione agli altri.

Non è facile capire il rispetto giapponese ma è facile scambiarlo per pura facciata, per codardia o per freddezza (mostrare estremo rispetto spesso sembra un voler tenere le distanze, vero?)... 

non credo, difatti, di esserci riuscito.

Però, un domani, se ti troverai a passeggiare per la Terra del Sol Levante, spero che potrai godere delle emozioni di cui godo io nel ricevere tutto questo rispetto.