· 

Il raduno delle 100 e più storie paurose

Arriva l'Estate.
In Italia l'estate è, principalmente, sole, mare e allegria: le giornate si allungano, non c'è più quel freddo che ti obbliga a prestare attenzione a quanto bene ti vesti, per molti inizia un periodo di lunghe vacanze e si può uscire più spesso con gli amici... insomma, strutturalmente è un periodo felice, forse il più esemplificativo della Vita, a dispetto della Primavera.
Ovviamente anche in Giappone è un periodo di grande vitalità, sebbene siano in pochi a godere di un così lungo periodo di vacanza: ci si gode il clima che rende le uscite serali maggiormente piacevoli.
Tuttavia, laddove noi italiani identifichiamo l'Autunno come una stagione di "morte" (non a caso festeggiamo i defunti in Autunno), probabilmente anche a causa di ciò che vediamo, ovvero l'appassire delle cose, o, in forma minore, l'Inverno... in Giappone la stagione "horror" per eccellenza è proprio l'Estate.
Al di là del detto popolare che vuole che la gente impazzisca in Estate, nel senso letterale del contesto, la stagione del sole e del mare... è la stagione della paura e dei morti.
L'Obon, una sorta di corrispettivo del nostro Giorno della Commemorazione dei Defunti, ma che copre un periodo ben più vasto di una sola giornata, fa parte della tradizione ed ha origini religiose, così come il raccontarsi storie a tema horror o sovrannaturale...

Avevo sentito dire che una delle esperienze più belle da fare, qui nella zona di Kyoto, è quella di osservare l'alba dalla parte più alta della collinetta (perché con tipo 500m di altezza mi fa un po' strano chiamarlo "monte") su cui sorge e si erpica il famoso Santuario Shintoista di Fushimi Inari Taisha.
Fu proprio in quest'ottica che, oramai tanti anni fa, organizzai con degli amici giapponesi questa "scampagnata": la mia idea era di partire prestissimo, arrivare che ancora è buio e aspettare l'alba assieme... ovviamente era piena estate, cosa che, nella mia mente, avrebbe reso il tutto più gradevole per la temperatura.
Si negarono quasi tutti, molto gentilmente ma, allo stesso tempo, in maniera piuttosto decisa: ero troppo "amante dell'horror", secondo loro.
Io, in realtà, non è che ci vedessi nulla di horror nell'andare in un Santuario poco prima dell'alba e osservare il nascere del sole in compagnia, in piena estate, ma per tanti amici, evidentemente, non era così.
I pochi "coraggiosi", infatti, proposero di farci la nottata ma, ad esser sincero, a me non era sembrata una grande idea: la zona è boscosa, di certo non adatta ad accendere un bel falò, senza contare che non ero del tutto convinto fosse fisicamente realizzabile in sicurezza.
Il piano "notturno" fallì e, infine, ci si decise per la mia idea originaria.

Mi aspettavo un luogo deserto, perché, sebbene mi sembrasse una cosa sia comoda che affascinante, la casualità di andare a beccare altre persone con la stessa voglia nello stesso giorno mi pareva qualcosa di decisamente basso, a livello percentuale.
Così iniziammo il cammino tra gli innumerevoli portali rossi, solo per trovare una piccola staccionata alta neppure mezzo metro che recava la scritta "divieto di accesso" e non permetteva oltre la salita.
Conoscendo i giapponesi, nel momento in cui vidi il cartello, pensai che fosse tutto finito... e invece, come se nulla fosse, stupendomi non poco... "scavalcammo" il divieto, tranquilli e beati, continuando la nostra salita.
Neppure un attimo di perplessità o un fermarsi a chiederci tra di noi cosa fare: ignorato del tutto il baluardo, proseguita la salita.

Dopo il primo, lungo (complice anche il sonno), attimo di stupore, non riuscì a trattenermi: dovetti chiedere come mai avevamo ignorato con tanta nonchalance il divieto e mi venne risposto che era "una cosa normale: lo mettono per evitare che i ragazzini che fanno le loro Kaidankai finiscano per cadere da qualche parte e rompersi il collo".

Certo.
Che stupido a non pensarci subito...
In quel momento, per la conoscenza che avevo della lingua giapponese, la parola Kaidankai aveva più o meno nessun significato, al massimo mi faceva pensare ad un "raduno di scale", ma non aveva alcun senso, per cui chiesi a riguardo.
E oggi, come allora ne parlarono a me, io ne parlo a te.

 

Prima, però, me la permetti una veloce premessa storica (che, ovviamente, i miei amici mi evitarono e che poi ricercai per conto mio... ma tu non ne scappi)?
Ci sono tracce di Hyakumonogatari Kaidankai 百物語怪談会 (letteralmente "cento racconti soprannaturale discorso raduno", quindi potremmo tradurre con "l'incontro in cui ci si racconta cento storie sul sovrannaturale") nel Periodo Edo, dove, per lo più, si indica tale pratica come un qualcosa piuttosto in voga nei mesi estivi tra la nobiltà e gli acculturati, tuttavia, affidandoci ai racconti e alle tradizioni orali, appare molto verosimile che prima di divenire una "moda" tra i nobili del periodo, fosse già stato per lungo, lungo tempo (almeno 1.000 anni, pare) un comune passatempo del popolo, sempre per le notti estive.
La formula tradizionale trascritta oggi (perché di com'era in origine possiamo solo avanzare ipotesi, ovvero pensare a un qualcosa di semplice come una sorta di raduno attorno ad un fuoco, in questo caso, probabilmente, vari piccoli fuochi, in un campo notturno) vuole che gli ospiti/partecipanti si riuniscano portano ognuno una candela.
La zona adibita dovrebbe essere completamente chiusa (al contrario della tradizione orale che voleva uno spazio aperto sotto la luna piena) e con due stanze ben divise, sia nello spazio che in termini sonori.
La seconda stanza verrà addobbata in precedenza con un numero di piccola lampade di carta blu, che verranno accese prima di iniziare il gioco, ed uno specchio.
La stanza primaria, invece, sarà vuota.
I partecipanti si accomodano in cerchio e si accendono le loro candele.
Uno degli ospiti, quindi, racconta una storia su un qualcosa di incredibile: le storie a tema horror, racconti di fantasmi, mostri o cose "strane".
I prediletti erano i racconti di esperienze dirette riguardanti fenomeni inspiegabili, seguiti da racconti sentiti da qualcuno ma "tracciabili", mentre erano decisamente bandite le storie "classiche".
In ogni caso, quando una persona finiva di raccontare la sua storia, si alzava e andava nella seconda stanza, qui spegneva (poco prima di entrare) la propria candela, quindi spegneva anche una delle lampade: si specchiava per un po' nello specchio e... se tutto andava bene, tornava dagli altri (riaccendendo la candela) e attendeva il proseguire della serata.
Va da sé che, piano piano, entrambe le stanze piombassero nel buio più totale... e lo scopo era esattamente quello: a turno si andava a spegnere una lampada e, non a caso il nome del gioco, queste erano proprio 100.
Quando le lampade accese erano inferiori al numero dei partecipanti, anche questi, una volta finito il "giro dello specchio", nel tornare al loro posto, non potevano più riaccendere la candela.

 

Per alcuni era quasi un rituale religioso, per altri un passatempo in un'Era in cui ancora non c'erano videogiochi, per altri una vera e propria sfida al testare chi era più coraggioso... mentre, per alcuni, era una vera e propria battaglia contro l'horror: tra le varie dicerie, infatti, vi era (e permane) quella che, alla fine del gioco, quando entrambe le stanze saranno al buio, dallo specchio verrà fuori Aoandon (青行燈).
Aoandon è tecnicamente considerato uno Yokai, anche se, a seconda delle tradizioni, sembra a volte più appartenere al gruppo degli Yurei, ma visto che non siamo qui a litigare sui dettagli anagrafici di una creatura che sembra una donna il cui viso non è visibile a causa dei lunghi capelli neri scarmigliati da cui sbucano due corna, che indossa un kimono bianco (tipico abito funerario, cosa che "spinge" verso il suo essere un defunto tornato) e che viene fuori da uno specchio (non ti ricorda un po' la bambina della serie cinematografica The Ring?), proseguiamo oltre.
Che cosa sarebbe dovuto accadere una volta incontrata questa simpatica creaturina?
Ovviamente nessuno lo sa: c'è chi racconta che ci fu una strage e morirono tutti, chi, invece, racconta che si salvarono fuggendo e qualcuno che afferma che lo Yokai, semplicemente, porta una sua lanterna di colore blu (anche perché i kanji che compongono il suo nome vogliono proprio dire "lampada blu") e racconta una storia, ponendo fine al gioco (alcuni ipotizzano che la storia duri fino all'alba o che, semplicemente, arriva l'alba e quindi la creatura conclude la storia e svanisce, ecc ecc).

E tutto questo, ovviamente, non c'entra nulla col mio racconto.

Si, perché noi eravamo rimasti al mio amico che mi fa sapere che ci sono dei "ragazzini che fanno le Kaidankai".
Quindi, dopo averti annoiato sulle origini storiche di questa attività odierna... cosa sono OGGI le Kaidankai?

Parliamo per lo più di un gioco, una sfida tipica dei bambini delle scuole medie o dei primi anni delle superiori: una prova di coraggio.
Non so altrove dove questa sfida ha atto, o, eventualmente, in che modalità, se differisce nei dettagli o chissà che, ma posso parlarti della Kaidankai più tipica di Kyoto, ovvero la sfida del Fushimi Inari Taisha.

Ora, di per sé il Santuario non ha storie particolari che lo rendano un luogo pericoloso o in qualche modo tana di qualche Yokai, se non fosse per le volpi: il Kami del Santuario Fushimi Inari Taisha è proprio Inari che, sebbene di per sé sia un patrono del riso e della coltivazione di questo, come messaggero ha le volpi.
E qui servirebbe una lunga, lunghissima discussione sulle volpi, o Kitsune, come si chiamano in giapponese, ma oltre ad averla già fatta nel mio saggio Kyoto Segreta (che puoi trovare comodamente qui, assieme ad un corposo estratto gratuito), farebbe diventare questo Articolo un potente soporifero, per cui mi limiterò in una breve e semplicistica immagine: nel folclore, riportato in auge poi da manga e anime in quantità industriale (letteralmente), ci sono due tipi di Kitsune, ovvero quelle di indole buona e quelle infami.
E quelle infami sono davvero infami.
Facendo un due più due veloce ci ritroviamo un piccolo monte (che già di per sé evoca istintivamente racconti del passato... comunque trovi tutto in Kyoto Segreta), facile da raggiungere, facile da "scalare" (due orette di passeggiata tranquilla... almeno, con il supporto della luce solare), boscoso, pieno di posti che sanno diventare decisamente lugubri ed inquietanti col favore delle tenebre (ne so qualcosa... anche se non avrebbero nulla di "male", la loro struttura e i materiali, uniti al contesto, una volta che si fa buio, han davvero qualcosa di... quantomeno sovrannaturale), tecnicamente patria di Kitsune a non finire... e cosa puoi volere di più?
E così scatta la sfida: i ragazzi arrivano tutti assieme a sera, quando oramai non c'è quasi più nessuno, zona abbastanza ampia da non farsi sorprendere da qualcuno che vive lì vicino (tipo alcuni Sacerdoti), sparisci oltre il primo tunnel di Torii, i portali rossi... e ci rivediamo domani mattina!
Se hai il coraggio di provarci e se non scappi al primo moto di paura del buio, dei rumori, di tutto quello che il tuo istinto ti grida essere un pericolo paranormale... beh, complimenti: hai superato la sfida e verrai onorato come coraggioso.

 

E se non la superi?
Ovviamente non è sempre il caso, a volte magari ti prenderanno in giro per un po' e ci saprai ridere anche tu sopra, altre volte non vedrai l'ora di finire quel ciclo di studi per cambiare scuola e liberarti della fama di fifone... altre volte potrebbe entrare in campo del vero e proprio bullismo, o Ijime, come vien chiamato qui.
Ma di questo credo sia il caso di parlarne più approfonditamente in un altro Articolo.

Una piccola chicca, secondo me, è insita nel nome stesso dell'Hyakumonogatari Kaidankai, specificatamente proprio nella sua "seconda parola": Kaidan.
Se andiamo ad osservare i kanji che la compongono, trovia
mo 怪談: il primo, letto "kai", significa varie cose ma sempre legate al mondo dello sconosciuto come dell'anomalo e non è un caso che sia parte anche della parola Yokai (妖怪).
Il secondo kanji, ovvero "dan", indica un racconto, una discussione.